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La Repubblica italiana fondata sul lavoro

Presentiamo in questa pagina il discorso di Domenico Giacomantonio, presidente delle Acli di Pavia, del 25 marzo 2022, in occasione dell’evento svoltosi al Circolo di Dorno.

 

È bene ricordare che la bandiera delle ACLI sono le tre fedeltà. Fedeltà alla Chiesa, fedeltà alla Democrazia e fedeltà al mondo del Lavoro.
Su queste basi partiamo dal discorso sul bene comune. Beni che appartengono a tutti, sono di tutti e di ciascuno, e partono dal principio della solidarietà, sono patrimonio dell’umanità, del presente e del futuro. Beni comuni sono l’aria, l’acqua, ma anche il sapere, la conoscenza, l’informazione, il patrimonio culturale, il territorio, il paesaggio.
Il bene comune è funzionale al pieno sviluppo della persona umana, in questo senso è strettamente legato al concetto di eguaglianza, sia formale, come pari dignità sociale (art. 3, c. 1, Cost.), sia sostanziale, nella prospettiva della rimozione delle diseguaglianze economico-sociali esistenti (art. 3, c. 2 Cost.). Il bene comune, come i diritti sociali (salute, istruzione, lavoro) o i diritti di libertà (personale, di stampa, di riunione), costituisce la base per il pieno sviluppo della persona umana, perché sia effettivamente libera, perché sia rispettata la dignità umana. Il bene comune contiene in sé anche il concetto della condivisione, che è fondamento e base della cooperazione.
Fra gli elementi del bene comune si inserisce il mondo del lavoro. Sul lavoro è fondata la nostra stessa Repubblica (art. 1 Cost.), ed esso è strettamente connesso alla dignità umana. Il lavoro dà a chi lo compie il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.).

Il mondo attuale è inserito in un processo di globalizzazione a cui non possiamo sottrarci, ma che può assumere un carattere positivo se ha un’anima ed è orientato al bene comune. Se invece è la logica economica a prevalere su quella politico-sociale, sarà in pericolo la libertà ed i primi a farne le spese saranno i ceti sociali più deboli.

In questo mondo il primo a soccombere è stato il lavoro. La necessità di inserire elementi di flessibilità, per arginare il calo di competitività del nostro paese, ha provocato lo sviluppo di contratti a termine, con figure professionali scarsamente tutelate, soggette a un forte grado di instabilità lavorativa.

Quindi è illusorio parlare di crescita dell’occupazione, quando in realtà aumentano soprattutto i posti di lavoro precari, e non aumentano in virtù di un programma organico di sviluppo, ma a motivo della convenienza che le imprese hanno di assumere manodopera a tempo determinato o a contratto formazione lavoro, per potere godere di determinati vantaggi.

Tutto il mondo del lavoro è in difficoltà e ne subiscono le conseguenze i giovani, le donne, le persone con più di cinquanta anni, ossia persone con fragilità di vario genere. La crisi ci toglie il fiato, con aumento delle tensioni sociali ed il rischio di una deriva antidemocratica.

Da sempre è attraverso il lavoro che la persona acquista visibilità e riconoscimento all’interno della comunità: il giovane diviene adulto, lo straniero visibile, l’adulto meritevole di rispetto.
Il lavoro non deve essere concepito solo come fenomeno economico e sociale, ma come fondamento della dignità della persona.

Dopo la seconda guerra mondiale, tutti gli stati occidentali hanno attuato una politica economica che porta il nome di un grande economista liberale, John Maynard Keynes, professore all’Università di Cambridge. Tali politiche hanno aperto la strada ad un livello di benessere, per la popolazione, che a ben pensarci ha del miracoloso. Grazie ad essa i paesi dell’Europa occidentale hanno raggiunto un forte livello di sviluppo, sia per quanto riguarda le libertà personali e politiche, sia per quanto riguarda le condizioni di vita. Si trattava insomma di investimenti pubblici allo scopo di sostenere la domanda, i consumi e quindi l’offerta di lavoro.

Tutto ciò è stato favorito, dal 1944 al 1971, dagli accordi di Bretton Woods, che avevano limitato i movimenti speculativi di capitali, garantito la stabilità dei tassi di cambio e favorito gli scambi fra le economie più industrializzate, presentando così un capitalismo dal volto umano e senza eccessi.
Per la prima volta si è introdotto il suffragio universale di partecipazione del popolo alla cosa pubblica, giungendo attraverso i partiti alla nomina dei rappresentanti parlamentari.

Oggi, i partiti che hanno vissuto il miracolo economico sono spariti. Quelli progressisti e riformisti, di ispirazione keynesiana, sono in crisi e così anche il liberalismo. Ed il popolo? Il tenore di vita dell’italiano medio è peggiorato e anche negli altri paesi, nonostante lo sviluppo, non è certo migliorato. La disuguaglianza è aumentata, i ricchi sono sempre più ricchi ed il resto della popolazione sempre più povera.

E le politiche keynesiane? Dagli anni ’80 sono state progressivamente abbandonate, facendo affidamento sul concetto che bastasse la crescita economica perché tutto si risolvesse positivamente. Ma così non è stato.
Si dice che manca il lavoro, perché siamo in un sistema industriale 4.0, ma guarda caso questo succede in modo marcato solo da noi. Infatti i giovani italiani emigrano e trovano lavoro all’estero.

Oggi ci vuole solidarietà e speranza. Ci vuole dignità del lavoro, giustizia sociale, internazionalismo climatico e nessuno, in questa società, deve essere considerato uno scarto. Ed infine, basta con i giovani che se vogliono lavorare devono emigrare.
Occorre riparlare di programmazione. Occorre ridare allo stato il ruolo di indirizzo strategico modernizzando i suoi strumenti. Occorre coinvolgere la popolazione nello sviluppo dei servizi, nel rilancio del territorio, nelle decisioni politiche. Occorre un confronto culturale ampio, forse con parole diverse, ma che raggiungano il cuore di tutti.

A fronte di questo contesto sociale è necessario ripensare l’impianto della politica in un’ottica di recupero sia del senso di dignità del lavoro per ciascuna persona sia del suo potenziale di agente di sviluppo per la comunità.
Occorre continuamente sviluppare proposte per contrastare la crescente precarietà occupazionale, portatrice di perdita individuale di capacità di progettazione e controllo della propria esistenza.

I diritti e le tutele del lavoro e dei lavoratori che devono, a nostro parere, continuare a essere i riferimenti di base per un ulteriore progresso del pensiero e dell’azione inerenti al lavoro: gli eventi di questi anni, pandemia e crisi compresa, e ora la guerra ci mostrano che gli ambiti di azione non possono limitarsi alla fabbrica, ma nemmeno al proprio Paese e alla stessa Europa: ora è l’intero pianeta che disegna il nuovo orizzonte di riferimento, con le sue esigenze di sostenibilità umana e ambientale, con le sue esigenze di ridistribuzione dei diritti e delle risorse.

Questo è l’impegno primario delle ACLI. Occorre estendere maggiormente i nostri servizi, occorre promuovere dibattiti, corsi di riqualificazione professionali, occorre creare una rete che coinvolga e sviluppi le imprese che sono sensibili ad un lavoro come fondamento della dignità della persona.

Su questo concetto è nato lo Sportello lavoro, rivolto ai cittadini in difficoltà occupazionale ed alle aziende territoriali.
Tutto quanto abbiamo detto in precedenza è possibile se poniamo anche il lavoro, al centro del sistema e ci impegniamo non soltanto a rendere più viva e dinamica la società civile, ma anche ad una maggiore presenza nel sociale, promuovendo l’associazionismo ed il volontariato.
C’è uno stile cristiano di vivere socialmente, con il rispetto della laicità e del pluralismo.

Cominciamo a fare in modo che il Circolo ACLI sia un luogo dove “favorire l’aggregazione e la socialità”, ma specialmente di “promuovere la socialità”; sia capace di creare una rete di volontari che siano in grado di seguire nuove attività di vita associativa e di estensione dei servizi; ed infine rendere i circoli sempre più capaci di agire con efficacia nelle dinamiche sociali.
Soltanto con la collaborazione di tutti si può sviluppare il nostro movimento.
Bisogna pensare in modo positivo, cercando di migliorare lo sviluppo associativo attraverso i mezzi d’informazione oggi a nostra disposizione.

L’essere presente sul territorio, con lo sviluppo dei circoli e degli associati, continua ad essere il nostro problema principale, cercando di creare una collaborazione con tanti uomini e donne che, con il loro impegno, danno il loro contributo per una società più giusta e democratica. Dobbiamo continuare a fare Formazione, specialmente per nuovi dirigenti.

Conclusioni
Abbiamo insomma concentrato la nostra attenzione sulla vita delle persone – cittadino, consumatore, pensionato, immigrato – ponendoci il problema di come essere utili nella vita quotidiana e particolarmente al lavoro.
Abbiamo ancora tante cose da fare.

L’epoca in cui viviamo è fatta di scelte, che trasformano in modo veloce, non solo il modo di vivere, anche il modo di relazionarsi, di comunicare, di rapportarsi tra generazioni. In parole povere di comprendere a pieno ciò che ci circonda e giungendo alla considerazione che il 1900 che abbiamo vissuto è finito, non c’è più. Il nuovo decennio si è aperto con la “laudato sì” di Papa Francesco, con il mutamento climatico che porta squilibri tali da condurre il nostro pianeta verso la fine. E ora la guerra alle porte di casa.
Ci vuole molto coraggio per andare contro a questa impostazione mediatica. Ma la nostra guida carismatica verso il mutamento è sicuramente Papa Francesco.

Vorremmo noi delle Acli riuscire a realizzare una domanda di impegno sociale e di cambiamento.